Il Padiglione dell’artigianato “Eugenio Tavolara” di Sassari
pregetto di Ubaldo Badas. (1956)

Il mio primo incontro con il padiglione Tavolara risale a tanti anni addietro, è legato alla memoria fantasiosa di un bambino affascinato da un’architettura fantastica per i suoi occhi, articolata su un susseguirsi di spazi imprevedibili, creati con una molteplicità di materiali colorati, spesso modellati in forme fantasiose e illuminati da una luce naturale che invadeva le molte trasparenze delle sue pareti, esaltando la percezione di un continuo dialogo tra esterno ed interno.  Un’architettura della quale ricordo l’odore, forse imputabile alle essenze naturali con le quali erano realizzati molti degli oggetti dell’artigianato esposti al suo interno e che, inserita nel verde, in alcune sue parti galleggiava sull’acqua di un laghetto azzurro abitato da ninfee e cigni. La consapevolezza di dovermi confrontare con questa memoria onirica, che so di condividere con tanti sassaresi della mia generazione, ha condizionato l’impostazione progettuale del racconto fotografico, per il quale sentivo la necessità di voler cogliere e rappresentare non solo gli aspetti formali di un’architettura ma anche le molteplici e fondamentali relazioni che lo legano alla città.
Il mio racconto nasce con la volontà di superare quel limite che Bruno Zevi vedeva nella fotografia di architettura, che ha in sé il rischio di fermarsi alla semplice visione dell’edificio, da un solo punto di vista, invece che ricostruire (…) quel percorso che potremmo chiamare musicale di successioni continue di punti di vista che l’osservatore vive nel suo moto entro ed intorno all’edificio. (1) La sequenza delle immagini intende quindi proporre una vera e propria esplorazione intorno e dentro l’architettura, alla ricerca, negli esterni, di quel legame ormai consolidato dal tempo tra il Padiglione ed il suo intorno, percepire la reciproca invasione dello spazio prossemico tra natura ed architettura. Negli interni, ho invece ritenuto di non dovermi limitare alla ricerca delle simmetrie prospettiche, che spesso rassicurano il fotografo nella composizione delle proprie immagini ma che, in questo caso, ritenevo da sole insufficienti per rappresentare gli equilibri architettonici di un progetto che ha la sua forza nel generare spazio più che nel definirne un ordine.

  1. Bruno Zevi: “Saper vedere l’architettura”  ed. Einaudi – 1951nel